La questione del chiodo giallo di Zara è un caso virale.
Sicuramente sarai a conoscenza dello strano caso della giacca biker in ecopelle color senape e del pandemonio che ha generato in rete. In caso contrario ti sintetizzo la faccenda. Accade che il chiodo giallo prodotto dal noto brand riscuota un successo incredibile e diventi un capo must have, una sorte toccata già in passato ad altri capi firmati Zara.
Quando però invade tutte le strade delle principali città e le bacheche di Instagram il fenomeno comincia a dividere. C’è chi lo ama e chi inizia a sbeffeggiarlo. Nascono così diverse pagine e account sui social, prima in Spagna (la pagina facebook “Victimas de la chaqueta amarilla de Zara”) e poi in Italia (la pagina Tumblr “Tipe col chiodo giallo di Zara“) che ironizzano sul chiodo sottolineandone l’estetica dozzinale e collezionando immagini rubate per strada alle ragazze che osano indossarlo.
Il chiodo giallo diventa un meme ed entra nei Trending Topic di Twitter. Quando però varca la scena delle conversazioni Selvaggia Lucarelli, con due post sul suo profilo Facebook e una foto in cui indossa il chiodo, schierandosi contro le “sedicenti fashion blogger” che lo denigrano, la conversazione prende una piega degenerativa e tracima oltre gli argini della specifica questione di partenza.
Non entrerò nel merito delle argomentazioni delle due fazioni che non brillano certo per acume e originalità né dall’una né dall’altra parte. Non entrerò nel merito del personal branding di Selvaggia Lucarelli e della sua prontezza a cogliere un trend per cavalcarlo con il suo distintivo e pittoresco sarcasmo. È il suo lavoro. E, almeno in apparenza, l’opinionista non intendeva colpire l’intera categoria fashion blogger ma solo la schiera ristretta delle fashioniste detrattrici dell’indumento.
Sta di fatto che i suoi toni riaccendono la polemica che ciclicamente investe la categoria “fashion blogger” con tutto il suo livore spumeggiante.
Al rogo l’influencer
Tra i mille rivoli della polemica intorno alle fashion blogger due sono i filoni che hanno acceso gli animi: l’incompetenza nel lavoro da una parte, la natura del lavoro dall’altra.
Entrambi hanno portato a una discussione molto sterile e a tratti infantile.
Le fashion blogger sono tutte “capre”, “incompetenti” “sgallettate” “inutili” che “infangano il settore e chi si occupa seriamente di moda”.
Questo il tenore della la maggioranza dei commenti. Una generalizzazione e le generalizzazioni appartengono alle menti poco fertili, aperte e critiche.
È vero, esistono fashion blogger incompetenti sia sull’argomento moda che sui pilastri sui quali dovrebbe reggersi l’attività del blogging e cioè il marketing e la comunicazione, il personal branding, il web writing, la seo, gli aspetti tecnici e quelli creativi.
Ma esistono fashion blogger competenti su tutte queste tematiche o su una parte di esse.
Esistono quelle affette dalla sindrome di Dunning-Kruger, ovvero incompetenti che sovrastimano le proprie capacità.
Esistono fashion poser e fashion editor ed entrambe possono essere più o meno competenti, più o meno accattivanti, più o meno capaci di trasmettere una personalità e uno stile unico. Ed esiste chi ha un blog che mescola outfit ed editoriali.
Esiste chi a quindici anni sbarca su Instagram dichiarandosi fashion blogger senza avere un blog e pensando davvero di “vivere di selfie”.
Esiste chi progetta accuratamente la propria attività di visual storytelling su Instagram e diventa un influencer su quel canale. E chi è in grado di pianificare, costruire e sostenere nel tempo un blog con tutto l’impegno, il lavoro, le conoscenze e la strategia che richiede un progetto così complesso.
Esistono fashion blogger plurilaureate che non sanno comunicare e persone senza titoli capaci di ispirare e coinvolgere.
Le generalizzazioni fanno male al pensiero critico, limitano, atrofizzano, impediscono di guardare oltre il nostro cinico, misero e avvizzito orticello di convinzioni.
La realtà è che l’incompetenza è trasversale al mondo digitale e al mondo in genere.
Ci sono blogger incompetenti nei settori tech, food, travel, marketing.
La fuffa è ovunque.
Anche fuori dal web. Ho conosciuto avvocati, medici, insegnanti, idraulici e muratori che si sono rivelati incompetenti, furbi, ladri e disonesti.
Quindi di cosa stiamo parlando?
Ai polemici di mestiere dico: se volete qualcosa contro cui combattere combattete contro l’approssimazione.
Anche e prima di tutto quella dei vostri giudizi. E abbracciate il cambiamento più che il lamento.
Lamentarsi non significa creare qualcosa. Ribellarsi non significa ricostruire. Sbeffeggiare le cose non significa cambiarle.
( C. Palahniuk)
Il secondo filone polemico che ha portato all’involuzione peggiore del discorso investe la natura del lavoro. Se sia più nobile e giusto lavorare con un blog o spaccandosi la schiena in miniera.
Per ognuno che criticava le fashion blogger perché “campano di selfie” c’era qualcuno pronto a far notare a Selvaggia che scrivere un romanzo non è come lavorare in fabbrica e così via in un vortice di assurdità, paranoie collettive e frecciatine da prima elementare per niente costruttive.
Seppur vero che il mondo delle fashion blogger presta maggiormente il fianco alle critiche semplicemente perché la moda è un campo di espressione della creatività umana già di per sé erroneamente sentito e additato da molti come frivolo e inutile, l’accanimento polemico sembra scaturire più che altro dall’ignoranza, purtroppo ancora dilagante, sul mondo digitale, sulle attività e i mercati online e sui professionisti del web e/o dalla non-accettazione del nuovo.
Il sillogismo degli ignoranti (intesi come coloro che ignorano) suona più o meno cosi:
– Chi lavora sul web lavora da casa o in giro per il mondo
– Chi sta a casa, o in giro per il mondo, e non sgobba in ufficio o in miniera è un parassita
– Chi lavora sul web è un parassita
Ed è una polemica che ciclicamente ritorna.
È accaduto in questi giorni con le “fashion blogger” ma è toccato settimane fa agli “influencer” e anni fa ai “blogger” come categoria da contrapporre ai giornalisti.
Purtroppo spesso il “confronto” soprattutto online è sopravvalutato.
Non c’è confronto quando non c’è apertura mentale e spesso accade che le nostre convinzioni o ideologie ci portino a cercare e prendere in considerazione solo notizie, pareri, evidenze che confermano ciò di cui già siamo convinti.
Si chiama bias di conferma ed è un’euristica, una scorciatoia mentale che il nostro cervello utilizza per farci sentire meglio, protetti e sicuri nella nostra zona di comfort.
L’apertura mentale è proprio la capacità di non finire ostaggi di noi stessi, di non inciampare nei bias cognitivi, di accogliere il nuovo con un approccio positivo.
E solo questo può portare al confronto vero.
L’influencer Marketing genera un ROI 11 volte superiore alle tradizionali campagne di marketing
Se lasciamo evaporare il rumors delle polemiche inconsistenti resta un fatto.
Che tu lo voglia o no, che tu lo accetti o meno, c’è chi guadagna con un blog.
Un blog può generare profitti in 2 modi:
- fungendo da supporto a un sito-prodotto o a un e-commerce e in questo caso parliamo di blog aziendale che diventa un importante anello della strategia di content marketing di un’azienda o di un brand
- diventando un business a sé stante che può generare reddito in maniera indiretta, cioè attirando clienti per attività di consulenza, formazione, coaching, o in maniera diretta con le collaborazioni sponsorizzate, il mondo delle affiliazioni e la vendita di infoprodotti attraverso un sistema (funnel di vendita) che integri content marketing, landing page ed email marketing. In questo caso parliamo di blog d’autore. Anche in Italia abbiamo esempi di successo con fatturati da capogiro. In nicchie diverse (e non sto parlando solo di fashion blogging).
È importante avere una piattaforma proprietaria come il blog per tutti coloro, aziende, professionisti, freelance che intendano costruire un business, promuovere i propri servizi o sviluppare il proprio personal brand online.
→ Ne parlo nel mio ebook Da Blog a Business dedicato al blogging.
Tutti i blogger possono essere influencer.
Ma non tutti gli influencer hanno un blog.
Cosa significa? Che utilizzando anche un solo canale social (Instagram, Facebook, Twitter, Snapchat) è possibile costruire nel tempo un network sul quale esercitare la propria influenza non necessariamente aprendo un blog.
Ma chi sono gli influencer?
Potremmo definire influencer quelli che Gladwell chiama “Esperti di mercato”. Gli influencer, proprio come gli Esperti di mercato di Gladwell, sono personalità capaci di innescare una comunicazione empatica relazionale grazie al know how verticale di conoscenze maturate su uno specifico tema e a spiccate qualità sociali come quella di generare coinvolgimento e “diffondere un virus”. Sono degli sneezers, “starnutatori” come direbbe Seth Godin.
Secondo Matteo Pogliani autore del libro Influencer Marketing:
Sono individui che grazie qualità riconosciute sono divenuti punti di riferimento per un network di persone, piccolo o grande che sia. Questo li rende autorevoli e credibili agli occhi dei follower e quindi diventano via primaria per informarsi e ottenere informazioni ritenute altamente attendibili.
Un potenziale che fa quindi molta gola anche ai brand. Riescono ad arricchire le comunicazioni delle aziende delle loro qualità e della credibilità acquisita, sdoganandola, in parte, dalla mera comunicazione commerciale.
Ovviamente ci sono influencer e influencer.
La differenza la fa sempre di più, oltre al carisma, la professionalità nel gestire progetti che portino valore a tutti gli attori coinvolti, brand, utente e influencer secondo il teorema del triplo win-win-win di cui parla Rudy Bandiera.
Se ti interessa capire meglio cosa c’è alla base del funzionamento e dell’efficacia dell’influencer marketing, lo spiega la Neuroscienza e ne ho parlato in questo post.
Gli influencer sono quindi il “capitale relazionale” di un’impresa e l’influencer marketing è in grado di generare importanti ritorni per un’azienda senza eccessivi investimenti.
Ma soprattutto in un’epoca in cui l’advertising tradizionale fatica ad attirare l’attenzione degli utenti, l’investimento migliore per un’azienda è nelle relazioni, nelle connessioni più dirette con i propri clienti e coinvolgere gli influencer nella propria comunicazione ha un impatto maggiore perché significa renderla più personale e umana.
Un recente studio di TapInfluence mostra come l’influencer marketing possa portare un ROI 11 volte superiore a quello delle tradizionali campagne di marketing digitale.
E tra i litiganti Amancio gode…i meccanismi della viralità
Quale ROI ha generato invece la faccenda del chiodo giallo? Chiediamolo ad Amancio Ortega, il fondatore di Zara che tra i due schieramenti in guerra ha vinto tutto.
Gli influencer e le dinamiche della viralità hanno lasciato una scia enorme. Di colore giallo.
Non esistono ancora modelli predittivi matematici che diano gli elementi per prevedere la viralità di un messaggio. O di un prodotto. D’altro canto la viralità non è nemmeno totalmente frutto del caso. Secondo Jonah Berger, autore del libro “Contagious: why things catch up” che raccoglie i risultati delle sue ricerche sul marketing virale, sono 6 le caratteristiche tipiche di un messaggio o un prodotto virale: rilevanza sociale, triggers (cioè attivatori, stimoli), impatto emotivo, visibilità, valore pratico, storie.
E il chiodo di Zara ha beneficiato di tre di questi elementi, la valuta sociale perchè i consumatori sono piu propensi ad adottare un prodotto cool che li faccia sentire speciali come nel caso del chiodo giallo, la visibilità intesa come tratto distintivo e qui è appunto il colore giallo (“Se qualcosa è fatto per essere visibile, ha buone possibilità di crescita”) e l’impatto emotivo generato dal meme e dalla diatriba che ha polarizzato le conversazioni ma non ha arrestato le vendite.
La formula del prodotto si è dimostrata vincente: costo accessibile, silhouette accattivante e quel “giallo brillante” che mette allegria ed è ideale per accogliere il bel tempo.
Alcuni sospettano che Zara abbia prodotto più unità di questo capo prevedendo che sarebbe diventato un fenomeno virale. Altri sostengono che il chiodo è popolare quanto lo sono stati altri capi del brand ma ha colpito proprio per il colore, il trigger che ha contribuito a renderlo memorabile.
Meme, Fomo, Wom, Fast Fashion: gli ingredienti della bomba virale
Ma altri fattori importanti hanno contribuito alla viralità. Innanzitutto il potere del Meme. Sapevi che l’idea del meme proviene dalla genetica? E a parlarne per primo è stato Dawkins uno dei maggiori esponenti del neo-darwinismo.
Poi il significato originale della parola, coniata dallo stesso Dawkins, è stato decontestualizzato ed esteso ed oggi è usato per indicare immagini, personaggi o video di impronta umoristca che raggiungono una diffusione “virale” attraverso i social network.
I memi sono la versione culturale dei geni, l’unità replicante dell’evoluzione culturale umana e come i geni si diffondono e si tramandano nella cultura.
I memi inoltre sono cosi chiamati da Dawkins perché imitano (meme da “mimesis”).
Antropologicamente abbiamo imparato che abbiamo piu possibilità di sopravvivere, di evolverci, di avere successo se imitiamo le caratteristiche migliori degli altri.
Lo stesso istinto di sopravvivenza che abbiamo oggi nell’era digitale e che si lega al concetto di FOMO (fear of missing out), la paura di perdere qualcosa, un’esperienza, un evento, un’occasione, di rimanere tagliato fuori, di non essere adatto sociologicamente parlando. Il FOMO viene spesso utilizzato per indicare la patologia delle dipendenze dai social network ma in questo caso non lo intendiamo nella sua accezione negativa. Il FOMO spiega il desiderio di possedere un chiodo giallo.
A stimolare il FOMO nelle persone ha contribuito il WOM (word of mouth) , altro elemento tipico del concetto di viralita, cioè il passaparola alimentato ovviamente dagli inluencer e dagli early adopter (cioè gli utenti precoci, i trendsetter) che per primi hanno indossato il chiodo poiché sappiamo che per trasmettere un virus non basta il malato, occorrono gli starnutatori.
Il WOM aiuta la viralità perché è orizzontale ed è molto più convincente rispetto alla vecchia comunicazione top-down del brand verso i consumatori e alla pubblicità tradizionale sempre meno credibile.
E qui il cerchio sembra chiudersi.
Se non fosse che il marchio Zara ha in sé stesso uno dei concetti chiave della viralità: la velocità.
La velocità di propagazione di un’idea è un fattore chiave secondo Seth Godin (“Unleashing the Ideavirus”).
La velocità è anche un tratto caratteristico della nostra era e della cultura digitale.
Zara è stata in grado di identificare questo elemento socio-culturale e incorporarlo nel suo modello di business conosciuto come Fast Fashion. In un mercato famelico, ossessionato dal FOMO, che esige il rinnovo continuo dell’offerta, il fast fashion riesce a servire abiti trendy simili a quelli visti sulle passerelle a prezzi accessibili con assortimenti a ritmi estremamente veloci. Il mix vincente è il cheap & chic. Ma la vera forza del fast fashion è la capacità di captare tendenze culturali e stili di consumo ed evolversi rapidamente.
Zara non ha bisogno del marketing, il marketing è nel suo DNA, nel suo modello di business.
E il caso del chiodo giallo ne è solo un’ulteriore conferma.
In sintesi
- Il caso del chiodo giallo ha risvegliato la polemica sterile sulle fashion blogger
- I blogger e gli influencer sono professionisti della rete
- Influencer marketing e content marketing sono attività attualmente molto performanti
- La formula del successo virale del chiodo giallo
- Il meme e la sua origine
- Gli early adopter del chiodo giallo hanno generato FOMO
- La paura di essere tagliati fuori è cavalcata dai marchi di Fast Fashion come Zara
- Un trigger rende un messaggio o un prodotto memorabile: il colore giallo
- I virus hanno bisogno di starnutatori oltre che di malati: l’importanza del WOM
Grazie per la lettura e se ti è piaciuto il post condividilo! 😉
Marianna
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